Mauro Capitani:
AFFABULATORE DI IMMAGINI
Mauro Capitani:
AFFABULATORE DI IMMAGINI
Scrivendo di pittura si tende sempre a privilegiare il vissuto dell’autore, la sua biografia e su questa a cercare la spiegazione, i motivi che ne determinano l’opera.
Quando poi si parta dal quadro, dal testo figurato e secondo le procedure più diverse si cerchi di risalire al “carattere” dell’opera, raramente si evitano i ritorni alla vita vissuta, al biografico.
Succede con i grandi e con i piccoli pittori; la differenza è che le vicende dei piccoli, interessando poco chi guarda, rimangono sullo sfondo in modo ben più sfumato che non per i grandi.
Ma quando nel tempo i riferimenti biografici si perdono, con i documenti, e la memoria dei fatti smarrisce ogni legame con le opere, allora è possibile con maggiore chiarezza vedere l’esatta natura delle stesse.
Paradossalmente il totale oblio sull’autore, la consegna al silenzio di tutte le fonti, la riduzione alla sola contemplazione dell’opera, restituisce al linguaggio artistico quell’ assolutezza che la storia, il vissuto, le tolgono.
Cosicché di fronte alle sculture dei frontoni e delle metope del tempio di Zeus ad Olimpia, non ci chiediamo più chi possa essere stato, biograficamente, lo sconosciuto e grandissimo maestro che le realizzò: di questo Maestro d’Olimpia si finisce per conoscere tutto, solo dalle sue sculture. Il suo essere un artista “senza tempo”, il suo precedere quasi – nello spazio concentrato dei due frontoni con la lotta tra i centauri e lapiti e la gara tra Enomao e Pelope – tutta la scultura dei secoli seguenti, da Fidia a Michelangelo, viene esclusivamente dalle opere.
La storia dell’arte moderna, esemplata sul modello canonico delle Vite del Vasari, tende invece a escludere dignità di grande valore a quelle opere che non recano il nome di un autore: solo in tempi più recenti grazie all’antropologia, che si occupa di manufatti per loro condizione opere di autori ignoti, si è provveduto ad abbandonare l’idea “classicista” che legava il concetto di arte esclusivamente a quello di autore, e a intraprendere percorsi di lettura più validi in riferimento alla condizione contemporanea.
Se mi sono abbandonato a questa premessa è perché, avendo già avuto modo di scrivere sui dipinti di Capitani in occasione della mostra Liberare lo sguardo, tenuta alla Casa di Masaccio nel 1995, ho ripreso in mano l’ampia antologia critica sul pittore, l’ho riletta e ho provato un attimo di sgomento: Capitani è un pittore di cinquantaquattro anni, e quindi maturo, che ha iniziato presto, nel 1967 la sua prima personale, e sul suo lavoro hanno scritto in tanti, critici e artisti.
Nella mia testimonianza del 1995 avevo cercato di introdurre una riflessione, da altri sollevata, sull’uso del mito in Capitani: “intanto non si tratta mai di un uso letterario e simbolista, poiché il pittore sembra scorrazzare dalla mitologia greca alla Bibbia, dal Vangelo a Shakespeare ed infine a Pulcinella, incurante delle regole testuali e delle storie in chiave antropologica. I mitologemi costituiscono per Capitani, indipendentemente a qualsiasi religione o cultura essi appartengano, una sorta di immagine fantastica sulla quale modellare il tempo della propria esistenza quotidiana. Il mito diviene così una fuga e nello stesso tempo un ritorno: una sorta di parafrasi del vissuto presente, come fu in quel modello esemplare di “ritorno”, il libro I dialoghi con Leuco di Cesare Pavese”.
E proseguendo il mio tentativo di interpretazione della pittura di Capitani indicavo quali modelli storici referenti per il suo discorso “certo Giorgio de Chirico, il padre mitologico per eccellenza della pittura italiana” e il fratello Alberto Savinio; aggiungendo però che, nella sua storia di pittore, Capitani si era incontrato variamente con aspetti salienti del Novecento italiano prima e della contemporaneità poi, fino a dialogare – nei suoi dipinti degli anni Ottanta- con gli esempi di Chia e Paladino.
Bisognerebbe tuttavia spingersi più indietro e avviare una riflessione sulla protostoria pittorica di Capitani. Le sue radici sono chiaramente avvertibili, e lo segnalava Tommaso Paloscia in opere come L’uomo montagna del 1970: un volto ritratto di fronte geometricamente costruito secondo una concezione “quadrifrontale”, da scultura greca arcaica, in cui è chiaro l’eco di certe teste di Venturino Venturi.
Ma questa sorta di “primitivismo” di Capitani, nei suoi esordi, è già partecipe di una aspirazione che lo porta lontano dalle sue radici toscane: si avverte infatti netta la presenza in L’uomo montagna, della grande lezione rivoluzionaria dell’Espressionismo, come matrice prima della visione che Capitani ha del colore. Lo stesso pittore, nel suo scritto apposto nel catalogo di Liberare lo sguardo, dice: “E’ vero vivo il colore, anzi amo trasformarlo, quasi in un naturalismo del quotidiano […]”.
Nei dipinti degli anni Settanta, e penso a Un limone, un pesce rosso, una conchiglia, 1972, Fuori nella collina, 1973, La moglie del pescatore, 1975, questa matrice appare evidente: si tratta tuttavia di un espressionismo per così dire di carattere più che di citazione storica:espressionismo inteso secondo l’accezione etimologica e non storica, usato in origine nel linguaggio architettonico, in Vitruvio, “col significato di parti rilevate” e ancora in Palladio col significato di “spremitura”. Una caratterizzazione dell’atto dell’ “esprimere”, che viola le norme della pittura come descrizione, e quindi oppositivo alla regola e tradizione accademica. In questa linea gli antecedenti e i conseguenti di Capitani sono stati numerosi.
Nella pittura fiorentina del Novecento si riconoscono antecedenti non solo in certa pittura di Ottone Rosai, ma anche di Silvio Loffredo, Renzo Grazzini, di Enzo Faraoni e poi nei forestieri in Toscana in quel Gastone Breddo che, anch’egli come Loffredo, deve essere stato maestro al pittore da giovane.
Sarebbe dunque anche sin troppo facile includere Capitani in quella linea del cosiddetto espressionismo toscano che attraversa tutta la storia del secolo appena passato.
Poi Capitani non ha mai smentito questo suo espressionismo, (con la e piccola a distinzione di quello dell’avanguardia storica) nella pittura successiva agli anni Settanta; valga per tutto dipinti come quel Monumentino a Erasmo da Narni (Gattamelata), 1987, in cui la vicinanza ai modelli dell’Espressionismo storico – e qui penso alle suggestioni kandinskijane dello sfondo e del cavallo con figura- balza evidente.
E in tempi più recenti vedo espressionismo in quadri quali Giochi d’acqua, 1990, Sera di nozze, 1992, e Sullo scoglio, 1994; e ancora in quell’invenzione tutta fantastica del Santiago e la sua preda, in cui il ritmo della scrittura di The Old Man and the Sea di Hemingway assume le tinte bianco-blu-rosse di una fiaba da bambini.
La novità rispetto alla vena espressionista originaria è che in Capitani sopraggiunge, a partire dai grandi quadri del 1980 in poi, di tema mitologico e letterario –si veda Poseidone visita l’Olimpo, 1984, e il gruppo sull’ Otello, un confronto duplice con altri testi del Novecento italiano, de Chirico e Savinio da un lato, e con la contemporaneità, la Transavanguardia, dall’altro. Ma riflettiamo ulteriormente sull’espressionismo di Capitani.
E’ stato Gianfranco Contini che, nella voce dell’Enciclopedia del Novecento, 1977, ha analizzato con profondità l’espressionismo letterario, distinguendo tra l’Espressionismo avanguardia artistica del Novecento e la “funzione generalizzante” di una corrente, “per così dire categoriale, che esso è venuto assumendo nell’uso vulgato degli ultimi decenni”, (Gianfranco Contini, Ultimi esercizi ed elzeviri (1968-1987), Torino, 1989, p. 41).
In scritti precedenti ho manifestato riserve critiche sull’estensione indiscriminata della definizione e classificazione come “espressionista” di gran parte della pittura moderna fuori dai confini cronologici dell’avanguardia storica: non si può accettare la costituzione metastorica di una linea “espressionista” come categoria dell’arte, da quella antica ad oggi.
Il concetto di “espressionismo”, l’uso di questa “categoria” estetica nel linguaggio critico ha origini moderne e sembra analogo all’uso che faceva del termine “impressionismo” Franz Wickhoff nello studio dell’arte romana tarda, in contrapposizione agli ideali della forma classica; Wickhoff avrebbe poi influenzato Alois Riegl.
E decisivo per la definizione di “espressione” secondo una concezione moderna fu il libro Renaissance und Barock di Heinrich Wolfflin del 1888, (il volume di Wickhoff, Die Wiener Genesis uscì nel 1895).
Quanti si richiamano all’etimologia della parola (espressione risalirebbe al XIV secolo), insistono sulla origine architettonica dell’uso, in Vitruvio e in Palladio.
E’ da rilevare che proprio in ambito fiorentino il critico Michelangelo Masciotta, già autore di una monografia su Oskar Kokoschka, così definiva l’espressionismo: “In generale con tale termine si indica la tendenza ad ogni sorta di rappresentazione violenta e concitata: tendenza che appare, più o meno frequentemente, in tutti i tempi e tutti i paesi.”, (Masciotta, Dizionario dei termini artistici, Firenze, 1967, p. 76).
Tuttavia l’uso dilatato del termine “espressionista” a pittori del secondo Novecento quali Grazzini e Faraoni, così come è invalso da parte di alcuni critici negli ultimi anni, solleva diverse riserve: la situazione pare differente per Silvio Loffredo perché la sua pittura assume un carattere stilisticamente più vicino al concetto di espressionismo, che si caratterizza come “un paesaggio di violenza e di rivolta, ora nel grottesco ora nel crudele, contro la norma (familiare, sessuale, sociale, politica) prima e più che contro la forma: Urschrei [urlo primitivo], strazio, distruzione e autodistruzione”, (così ancora Contini, cit., p. 45).
Ora nella pittura di Capitani manca questa violenza, questa rivolta che sarebbe alla base dello spirito espressionista; ma del carattere espressionista in Capitani ci sono alcuni elementi: l’urgenza di esprimere “la visione interna”, privilegiare l’atto soggettivo sulla descrizione del reale, l’esternazione totale del sentimento rispetto alla rappresentazione dell’oggettività.
Si tratta di un espressionismo in senso lato che ha perduto le proprie prerogative rivoluzionarie nei significati ma che mantiene un senso di tensione nel linguaggio: non sufficiente tuttavia a definire Capitani un espressionista, se vogliamo rimanere al dettato di Contini, secondo il quale “per avere quel più largo impiego categoriale nelle arti della parola che risponde a una diffusa opportunità critica, deve essere legato a precisi istituti stilistici”, (Contini, cit., p. 46, il corsivo è nostro). Qui gli istituti stilistici dell’espressionismo non sono presenti, cosicché in altre sue avventure pittoriche, come nelle tele del ciclo Obbiettivo fiabe, 1998, Capitani volge decisamente verso il linguaggio surrealista e un dipinto quale La presenza dell’architetto nella stanza di Lolita appare echeggiare più di una suggestione dalla pittura di Savinio.
Si giunge dunque and un'altra questione della pittura di Capitani: egli è, senza dubbio, un pittore colto, ma che ruolo questa cultura gioca nella genesi del suo lavoro? Da un punto di vista compositivo Capitani non è un “citazionista”, non opera per assunzioni di motivi tematici, né per modulazioni stilistiche di altre lingue formali; egli preferisce agire per “inserti”, come nel quadro Il grande colpo ove i girasoli di Van Gogh si trovano dipinti all’interno di una sciarada di figure del fumetto, da Diabolik a Mandrake.
Ancora i dipinti di Obbiettivo fiabe si rivelano testi privilegiati per capire il rapporto tra Capitani e la sua cultura figurativa e letteraria. Tutte le tele della serie presentano degli sfondi desunti da impressioni della pittura storica: si può individuare Marc Chagall, suggestivamente presente nel villaggio del paesaggio notturno e nevoso di La piccola fiammiferaia, e ancora Savinio nelle architetture oniriche del Paesaggio italiano, un quadro popolato di maschere e Pinocchio, ove fa presenza anche il figlio di Ricasso, Paul in veste di Arlecchino.
Capitani è avvezzo a scrivere sovente nei cataloghi delle sue mostre delle note –Un pensiero dell’Artista- che sono poi delle ampie riflessioni sulla propria opera e insieme una sorta di sintetico diario autobiografico: a leggerle si sarebbe tentati di credere che il pittore testimoni sulla pagina il processo del suo lavoro, ma alla fine non è così perché i dipinti nascondono –ed è bene- una struttura più oscura, un procedere per associazioni di immagini che nessuna prosa d’arte può spiegare.
Confesso una mia qualche perplessità sulla felice chiarezza con cui Capitani espone in queste note il rapporto tra la sua vita e la pittura: si potrebbe pensare che egli agisca nello scrivere, in queste sue confessioni, quasi per depistarci dai motivi veri della sua pittura.
Come nell’interpretazione di un sogno in cui –seguendo il procedimento freudiano- si devono dividere i materiali diurni, i residui della vita vigile, dai pensieri onirici latenti che costituiscono poi “la vera e propria forza motrice del sogno”, così questi scritti possono costituire un velo ai motivi più profondi che vengono alla luce attraverso i quadri. Voglio dire che, fortuna sua e nostra, galleggiano nei dipinti di Capitani molti più motivi ed elementi che non quelli che il pittore riesca, con esemplare chiarezza prosastica, a comunicare nelle sue note scritte.
Guardiamo più in profondità queste tele, andiamo al di là della superficie che ci offrono alla prima vista e consideriamo così alcuni dubbi.
Così in quel dipinto Classico Gulliver, 1998, che egli descrive nella sua nota come “così volutamente compiuto e tagliato”, proprio il “taglio” della testa indica qualcosa che l’intento affabulatorio e la volontà razionale dell’autore non riescono alla fine a spiegare; vi è sempre una parte, una “zona di confine” tra l’immaginazione e il principio di realtà che il pittore non riesce fino in fondo a spiegare ed è da questa zona che parte l’incessante bisogno di racconto pittorico di Capitani.
Nello stesso Classico Gulliver, la presenza del busto di marmo antico, forse una Venere, assume un valore inquietante, così come in Euridice guarda Orfeo, altra tela chiave dell’immaginazione surreale del pittore, il corpo del cantore è una statua mutila e senza testa. In Capitani dunque i motivi letterari, la sua cultura figurativa procedono sempre insieme a un lavorio nascosto dell’inconscio, ad un manifestarsi mediato di situazioni emotive interne che la pittura esteriorizza ma la ragione non riesce sempre a definire.
Non intendo qui tentare una ipotesi di lettura in chiave psicoanalitica della pittura di Capitani, non ne sarei capace, ma solo rilevare come il materiale che compone questi dipinti, le trame che vengono “messe in scena” nei diversi cicli, da Obbiettivo fiabe a Momenti di viaggio, dai Tarocchi a Liberare lo sguardo, fino a Ecce Donna, non sono poi così chiare e decodificabili come sono apparse al pittore –nei suoi scritti- ed ai critici che ne hanno trattato.
Viene sempre il sospetto che alla base di questa pittura vi siano quasi dei complessi processi di rimozione di cui le immagini sono i segni.
E questo anche laddove l’uso di citazioni, come nel cavallo e nel toro picassiani della tela Il volo di Don Chisciotte nel tramonto, sembrerebbero introdurre solo elementi di cultura figurativa.
Voglio dire insomma che il materiale visivo del pittore, le sue affabulazioni figurate non sono sempre un gioco felice, quel grande gioco della fantasia che egli esorcizza attraverso il suo lavoro e che riesce così bene a dominare nell’eleganza del suo linguaggio.
Forse qualcosa del più profondo –e quindi di più originario e meno avvolto dalle figure della nostra tradizione pittorica- appare nel ciclo Ecce Donna, 2001, che Alvaro Valentini, il maggior esegeta del pittore, ha definito “una sorta di riflessione psico-esistenziale sulla donna e sul suo universo intimo”.
Sono questi dipinti di Ecce Donna forse quelli meno “onirici” e surrealisti di tutta l’opera di Capitani; apparentemente tranche de vie di una cronaca quotidiana che il pittore nella sua consueta nota esplicativa così descrive: “Ho rappresentato donne sensuali e vere, in una chiave di lettura volta al fascino e all’intimità, alla forza dell’amore, al contatto”.
E ancora Valentini scrive che Capitani ha voluto “impaginare la bellezza e la sensualità, con l’arte del mostrare e del nascondere”: qui il pittore e il critico coincidono quasi sincronicamente nella lettura delle opere.
E’ questa una interpretazione razionale ben motivata dagli intenti dell’artista, e si fonda su un documento, le sue dichiarazioni nella nota del catalogo, che sono poi un “documento”.
A volte stare rigorosamente ai documenti per interpretare l’opera di un pittore, può significare –come scrisse acutamente Paul Valéry- perdere la possibilità di arrivare alla verità: i documenti, le dichiarazioni di poetica, le giustificazioni biografiche, sovente mascherano la verità.
Guardiamo dunque queste immagini di nudi femminili dimenticando volutamente le dichiarazioni dell’autore: non sono forse quelle donne “vere” che il pittore dichiara di aver voluto dipingere, quanto piuttosto delle figure interiori, delle immagini che la memoria ha evocato anche se fossero state dipinte con le modelle in posa.
Certo la donna è stata pensata come simbolo delle più diverse facies dell’anima: dalle “isole delle donne”, in Robert Louis Stevenson e Pierre Loti al corpo della donna come isola, continente e terra, nella figura di Pocahontas (si veda in Sergio Perosa, L’isola la donna il ritratto, Torino, 1996, pp. 56-61). Ma anche in questo caso, contro le fantasie letterarie del maschio che sovente tende a confondere il proprio fantasma interiore con le figure reali, occorre ricordare che la Natura così come la Storia sono due sistemi totalitari che si perpetuano senza fine, che non esiste dunque una Natura “vera” e una Storia “vera” ma una Natura e una Storia create dalla cultura che di volta in volta prevale nel dominio della società. Da questo punto di vista lasciamo la pittura di Capitani alla sua forza affabulatoria senza pretendere di farla divenire verità: la sua vulcanica fantasia visiva ne risulterebbe irrimediabilmente danneggiata.
San Frediano, Agosto 2003
di Marco Fagioli